L’intelligenza emotiva e la psicomotricità

Ho deciso di provare a scrivere su un tema che mi sta molto a cuore.

Non è facile riversarlo in parole, spero comunque di ottenere un risultato comprensibile a chi legge.

Iniziamo con una citazione
“Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” (Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe).

Questa frase è bellissima e riassume secondo me il significato della nostra vita: arrivare a vedere con il cuore. Comprendere il mondo che ci circonda attraverso le nostre emozioni.
Non è facile, e soprattutto da bambini le nostre emozioni sono per di più un fardello ingombrante che quasi ci offusca la vista di quello che sta davanti, perché quando arriva un’emozione noi siamo tutta gioia, tutta rabbia, tutta tristezza.
Sarà il tempo a permetterci di regolare la nostra risposta all’ambiente, anche da questo punto di vista, permettendoci di sviluppare e regolare la nostra intelligenza emotiva.

Ma come si crea nel tempo questa intelligenza emotiva? Attraverso continui scambi empatici fra l’ambiente di riferimento del bambino (principalmente i genitori, o care-giver) e il bambino stesso. Questi scambi devono consentire al bambino di dare un nome alle sue emozioni, comprenderle, sentire da dove vengono, sapere di poterle esprimere, e permettergli anche di regolarle nelle loro manifestazioni.

Il care-giver sarà quindi di aiuto al bambino:
Accogliendo e dando valore ad ogni emozione provata dal bambino
Aiutando tutte le emozioni ad esprimersi, senza alcuna censura, anche in tutta la loro prorompenza
Ponendo dei confini chiari ai comportamenti problematici che i bambini possono assumere come conseguenza delle loro emozioni

L’attività psicomotoria comprende molti ambiti dello sviluppo del bambino, ma forse il più importante è quello di aiutarlo in questo percorso di sviluppo dell’intelligenza emotiva.
Il bambino entra nella stanza e svolge attività di gioco libera e spontanea, perché il gioco, soprattutto se motorio e di disequilibrio, è un potente strumento per narrare la propria storia profonda, le proprie emozioni e le proprie angosce, in un contesto in cui si senta sicuro, ascoltato e valorizzato nelle sue potenzialità. Il tutto all’interno di un quadro ben preciso, costituito da obiettivi, da un dispositivo spaziale e temporale e dall’atteggiamento caloroso e attento di un adulto che sappia comprendere il senso del suo agire.
Lo psicomotricista dunque si porrà di fianco al bambino, lo sosterrà nel suo gioco, rispecchierà i suoi agiti e i suoi sentimenti, per permettere al bambino di compiere un vero e proprio percorso di maturazione psicologica, che consente il graduale passaggio dal corpo al linguaggio, ed una presa di distanza dalle emozioni, a partire dalla possibilità di esprimerle, di riconoscerle e di sfumarle in forme di pensiero e di comunicazione.

Ho parlato forse un po’ tecnico. Provo a riassumere: il bambino (qualsiasi bambino, anche quello “sano”) entra in stanza di psicomotricità con un groviglio, dentro la pancia, di emozioni e pensieri e movimenti (perché all’inizio queste cose sono sempre aggrovigliate), e grazie allo spazio e allo psicomotricista fa un percorso in cui sbroglia lentamente questo groviglio.

Pensiamo però un po’ anche ai bambini che invece hanno la maggior parte dei problemi proprio lì, nell’intelligenza emotiva.
Chi vi viene in mente?
Il bambino autistico. Il bambino autistico che non sa riconoscere le emozioni altrui, non sa rispecchiarsi (ci sono degli studi bellissimi che sembrano spiegare molte delle difficoltà dell’autismo attraverso una carenza dei neuroni mirror, quei neuroni che si sono sviluppati per farci sentire empaticamente le intenzioni dell’altro), non sa cosa prova.
Questo bambino non ha gli strumenti per crearsi una propria intelligenza emotiva.
E allora cosa succede? Che in stanza di psicomotricità è il terapista a crearla per lui, enfatizzando le sue azioni, le sue espressioni del viso, mettendosi al suo fianco e agendo in costante empatia con lui.

Ultimamente però sempre più spesso, al bambino autistico, viene proposto un condizionamento.
Un’attività che non prevede la comprensione emotiva dello sviluppo delle competenze, ma che “educa” il bambino a comportarsi in un determinato modo in una determinata situazione.
Funziona?
Spesso.
Mi piace?
Non tanto.
Perché io mi sento di aver davanti una persona, verso cui nutro un grandissimo rispetto e fiducia nelle sue capacità di scegliere la sua strada, e non quella fissata da altri, in quanto soggetto attivo del proprio divenire. Una strada che viene scelta perché emotivamente la persona la avverte come giusta, e non perché ottiene un cioccolatino se la sceglie.
E nonostante quello sia il tipo di terapia che fa sentire tranquilli molti genitori, a me dispiace pensare che non si riesca a far fermare questa famiglia per guardare, guardare davvero, CHI hanno davanti, senza pensare a CHI vorrebbero che diventasse.

Spero si capisca che non sto scrivendo contro la famiglia che sceglie questa determinata strada (che comunque preferirei venisse affiancata da un percorso psicomotorio). Mi spiace solo, tanto, che non ci sia possibilità di accogliere completamente i genitori, i fratelli, tutti quanti vivono con un bimbo autistico, per sollevarli dalle loro fatiche e lasciare che osservino, con la maggiore serenità possibile, la persona che sta al loro fianco, con particolare attenzione verso ciò che sa fare, le sue caratteristiche speciali, le sue potenzialità e la sua dinamica evolutiva. Perché nessuno di noi è “una patologia”, una “definizione clinica”, spesso immutabile: ognuno è un individuo, ognuno è protagonista della sua personale storia.

la bambina che nascondeva una sirena

E. arriva su invio di una psicologa psicoterapeuta. I racconti dei genitori mi narrano di una bambina molto intelligente ma con spiccate difficoltà comportamentali, soprattutto nella modulazione delle reazioni alla frustrazione. Sia alla scuola dell’infanzia, sia con i genitori, sia con la famiglia, E. presenta improvvisamente delle “esplosioni di collera” che mettono in allarme gli adulti e che risultano di difficile gestione.

Dopo l’anamnesi, accolgo la bambina nella stanza di psicomotricità per le prime sedute di osservazione e valutazione.
Durante il gioco, al bambino è concesso di ripresentare la sua storia, con i suoi piaceri e i suoi dispiaceri. E. all’inizio non riusciva a rappresentare per intero una storia. Presentava un’attività controllata, e controllante, che all’improvviso perdeva di coerenza, diventando qualcosa di sporco e provocatorio ma totalmente avulso dal contesto (si costruivano puzzette – con tanto di rumore – si mangiava vomito…). La bambina stessa in queste situazioni perdeva la capacità di autoregolarsi, assumendo posture che rimandavano a un corpo spezzato e un tono di voce grossolano, non modulato. Lessi in questi comportamenti la rappresentazione di angosce arcaiche: mi sembrava che E. non fosse capace di accettare e sostenere anche gli aspetti “non positivi” della realtà, che quindi tendeva a scindere dal suo gioco, relegandoli in un momento non contestualizzato ed estremo. Ma questo comportamento non risultava adattivo: E. comunque si “spezzava” quando le angosce emergevano, non trovando in sé la possibilità di attenuarle né di contenerle.
La bambina inoltre risultava bloccata nella sua azione corporea, non permettendosi di fare tutte quelle attività di disequilibrio che portano, per un attimo, alla perdita di controllo della propria postura e dei propri movimenti nello spazio.

Restituisco ai genitori queste mie impressioni, parlando di un progetto che ha come obiettivo primario quello di permettere ad E. di sentire se stessa, il suo corpo e il suo vissuto (anche negativo) come un unico indivisibile. Gli imprevisti, le “cose brutte”, gli “scivoloni” accadono: non possiamo separarli da noi, perciò è meglio trovare dentro di noi la capacità di accoglierli e affrontarli.
E. andava quindi contenuta nelle sue angosce, che però era necessario fossero riconosciute come possibili, per tutti, e accettate.
Durante le sedute lavoriamo molto sulla spazializzazione. Il gioco lo inventa E., ma io le creo sempre un contesto che contiene tutto quello che lei mi porta. Anche le sue rappresentazioni più estreme vengono accolte senza giudizio e inserite in un contesto: la cacca ha il suo spazio, il vomito pure.
I primi incontri vedono E. assumere un ruolo direttivo: lei è la madre, o la regina, e io devo ascoltare tutti i suoi “ordini”. Eseguo, mettendomi a sua disposizione. Ma, dopo un po’ di incontri, inizio ad agire il ruolo di colei che non accetta quello che viene proposto dall’altro – perché ha un cattivo sapore, perché non mi piace, perché non lo voglio fare… – finendo poi però per “mandare giù” lo stesso l’“amaro boccone” (non senza lamentarmi). Cerco insomma di far capire che possiamo mettere dentro di noi anche le cose peggiori senza venirne distrutti.
E. osserva tutte queste mie reazioni. Le prime volte sembra spaventata ma anche divertita dalla mia “sofferenza” giocata, mostrando un po’ di sadismo. Gli incontri proseguono, molto simili l’uno con l’altro.
E poi, un giorno, dopo circa 12 sedute, esce da questa sua posizione leggermente persecutoria e mostra la capacità di prendersi cura: crea un intero parco giochi solo con dei legnetti, mette molte famiglie in questo parco giochi, e – quando uno dei bambini-legnetto si “fa male”, chiede in autonomia di costruire un ospedale per curare il bambino. Lo porta lei, insieme a tutta la “famiglia”, e fa anche la parte del dottore. E. insomma ha cambiato atteggiamento: adesso si preoccupa per gli altri, e trova il modo di aiutarli!

Ecco allora che c’è stato il passaggio: E. si può permettere di riconoscere le sue angosce, di accettare che avvengano “cose brutte”, e di pensare a cosa fare per superare il momento difficile. Il gioco diventa condiviso: E. si diverte, ride, mi conduce all’interno della sua enorme fantasia, inventando scenari sempre più ricchi e variati.

Ormai ce l’abbiamo fatta. Le case sono sempre più grandi e accoglienti, c’è spazio per la bambina dispettosa, l’animale, un po’ di disordine, l’imprevisto. E. si lancia, salta, si mette in gioco e mette in gioco il suo corpo, per intero: agisce liberamente con se stessa, su se stessa, sperimentando tutte le sue parti, conoscendole, e integrandole. “Il bambino che agisce liberamente forma il proprio pensiero”, dice B. Acouturier.

Il suo sviluppo del sé è completo. La terapia con E. giunge al termine.
Ed ecco che la bambina crea questa questa bellissima rappresentazione: una sirena. Un po’ ragazza meravigliosa, un po’ animale. Tutto insieme. Unito. Senza dover tagliare via qualcosa dalla sua personalità, così ricca e complessa.

LA MENOPAUSA VISTA DALL’OSTETRICA

Perchè le Ostetriche per la menopausa?
Chi meglio di un’Ostetrica può seguire e assistere le donne durante la menopausa?
Noi siamo le professioniste della fisiologia in ogni fase della vita della donna, dall’inizio della pubertà fino al climaterio.
La menopausa è un evento naturale nella sua totalità, ma come ogni cambiamento necessita di un adattamento, sia fisico che emotivo. Esattamente come la bambina diventa donna fertile e la donna in attesa diventa mamma, esiste il passaggio nella menopausa.
In tutti questi cambiamenti della vita le donne si mettono in gioco utilizzando le proprie risorse interiori. Noi Ostetriche vogliamo aiutarvi a fare emergere proprio queste capacità, che sono già presenti dentro di voi, attraverso un percorso specifico per questo momento della vita.

Per saperne di più, contatta le Ostetriche: info.ostetriche@gmail.com
Giulia (3332481860) e Martina (3663708533)

La distanza ottimale

In psicomotricità esiste questa espressione, che oserei dire basilare per la nostra professione: la DISTANZA OTTIMALE.
Cosa significa?
Perché è così importante?
In cosa può interessare anche ai genitori?

I bambini nel gioco sono degli esseri meravigliosi. Osservano, sperimentano, mettono in atto tutti i loro circuiti cerebrali, da quelli motori a quelli del pensiero astratto a quelli del linguaggio.
Il gioco è per loro la più grande forma di conoscenza del mondo e di scoperta di si stessi, dei propri limiti e delle proprie potenzialità.

Per questo a noi psicomotriciste piace tantissimo la frase “il gioco è la medicina più grande”. (E sinceramente pensiamo non valga solo per i bambini!)

La distanza ottimale è quello spazio che deve occupare l’adulto nel gioco del bambino.
Si dice che egli deve stare lì dove può essere trovato.
Ovvero vicino al bambino, pronto a intervenire quando ci sia bisogno di lui, pronto a interagire aiutare indirizzare evidenziare.
Ma non “sopra”. E neanche “dietro”.
Non deve giocare al posto del bambino, non deve rubargli la possibilità di sperimentare e di inventare.
E neanche deve nascondersi, mimetizzarsi, ignorare l’attività del bambino.

L’adulto deve essere un complemento a disposizione. Un osservatore entusiasta. Un’aggiunta preziosa a questa importantissima attività che sta svolgendo il bambino.
E se sta per succedere qualcosa di pericoloso, farlo sapere, in funzione di essere l’adulto che riconosce le conseguenza (non “fermo che ti fai male” ma “questo è rischioso, facciamo la sicurezza!” – perché come dicevamo i bambini devono poter sperimentare).
E se il bambino non sta agendo, non insistere affinché ciò avvenga (“vai, vai anche tu, dai!”), ma semplicemente osservare e attendere.

La psicomotricista in stanza con il bambino starà sempre attenta a mantenere una distanza ottimale, una postura aperta e accogliente, osservando le attività del bambino e rispecchiando le sue emozioni. Il bambino saprà così di essere in un luogo dove potrà esprimere realmente se stesso, senza filtri e senza giudizi, consapevole di trovare lì tutto l’aiuto e l’empatia di cui necessita.

Corso di accompagnamento ed educazione alla nascita

Sei una mamma in dolce attesa?

Desideri sentirti pronta per affrontare il travaglio, il parto e il primo periodo di vita del tuo bambino?

Potrai scoprire te stessa, condividendo con altre madri pensieri, emozioni, timori e ricevere informazioni basate su evidenze scientifiche e la conoscenza dell’ostetrica.
Noi ostetriche di MAM cerchiamo di accoglierti nella tua unicità, con le tue idee e i tuoi bisogni. Il nostro obiettivo primario è personalizzare il percorso per far emergere e valorizzare le tue risorse perché, dopo aver ricevuto tutte le informazioni necessarie, tu possa scegliere consapevolmente ciò che ritieni essere il meglio per te, il tuo bambino e la tua famiglia.

Alterneremo l’informazione e la condivisione a momenti dedicati alla creatività o al lavoro corporeo che comprende anche massaggio, respirazione, yoga, danza del ventre, reiki, e porremo molta attenzione al perineo.

È prevista la partecipazione libera di una persona a scelta della mamma per alcuni degli incontri.

Ti aspettiamo!

Mum’s cafe – parlano le ostetriche

Da sempre le donne si sono riunite in gruppi, cerchi di sorellanza. Questo è è il modo di sempre in cui le donne si sono incontrate per prendersi cura, condividere, imparare, nutrire, guarire, celebrare e crescere.
Il sostegno femminile è sempre utile, ma quando si attraversano momenti significativi può rappresentare la chiave di volta per una vita armonica. Per questo noi ostetriche crediamo moltissimo nel progetto del Mum’s Cafè, che sarà un luogo di incontro e sostegno delle donne per le donne.

Noi ostetriche, nell’ambito del Mum’s Cafè, assisteremo le donne nell’adattamento e nelle modificazioni dopo il parto, e faremo diagnosi e consulenze in tema di allattamento e accrescimento neonatale. Forniremo tutte le informazioni utili a compiere scelte consapevoli e autonome, perché ogni donna deve avere la possibilità di scegliere ciò che ritiene essere il meglio per sé e il proprio bambino.

Vi aspettiamo!
Marta, Alessandra e Chiara

Mum’s cafe – parla la doula

Avere una doula al proprio fianco potenzia la saggezza dell’essere mamma. Ogni mamma infatti sa sempre quale sia la scelta più giusta per se stessa, per il proprio figlio, per la propria famiglia.

La doula sostiene la mamma e la donna, la aiuta aa prendersi cura del proprio sentire, appoggiandola nel contatto e nell’ascolto del proprio istinto e del proprio cuore, lontano dal giudizio.

La doula ascolta, accoglie, sostiene. Anche negli aspetti pratici di quello che avviene prima, durante e dopo il parto.

Io come doula, nell’incontro con le mamme, le aiuterei a parlare delle loro emozioni, siano esse positive o negative, legate alla maternità. Mi porrei al centro del gruppo di donne lasciando che emerga il loro vissuto, la loro storia e le loro paure, e offrendo il mio supporto e la mia esperienza e lasciando fluire l’energia del confronto fra donne. Offrirei insomma il mio supporto di “mamma delle mamme”, come sono stata definita!

Spero di incontrarvi numerose!

Simona.

Mum’s cafe – parla la pedagogista

“Perchè dovrei partecipare al Mum’s Cafè?, “Cosa si farà e di cosa si discuterà?”, “Come può aiutarmi una pedagogista?”…
Queste e tante altre potranno essere le domande che vi porrete quando sarete invitate a partecipare al “Mum’s Cafè”. Ma di cosa si tratta?

Innanzitutto, precisiamo subito che non ci ritroveremo in un bar ma in un luogo che vuole, in certo senso, ricreare quella serenità e spensieratezza che caratterizza un bar. Inoltre, saremo prevalentemente donne – e qui dovrebbe scattare un applauso: finalmente un spazio e del tempo da dedicare solo ed esclusivamente al vero sesso forte. Potrete portare i vostri bambini, da quelli in grembo a quelli in fascia; si potrà sorseggiare una tisana, mangiare dei biscotti e parlare. Alzi la mano la donna a cui non piace parlare, discutere e confrontarsi… ecco, noi faremo proprio questo!!!

E la pedagogista, cioè io? Beh, io posso ascoltare; posso ricreare un clima facilitante in cui vi possiate sentir libere di esprimere gioie, paure, rabbie, delusioni legate al periodo che state attraversando, certe di poter contare su un facilitatore della comunicazione e su un gruppo di donne che vivono la vostra stessa esperienza e che, quindi, spesso provano ciò che provate voi.

Inoltre, mi pongo in una condizione d’aiuto offrendo consigli ed indicazioni pedagogiche-educative riguardanti la coppia, la famiglia, i vostri figli; aiutare la mamma, la moglie e la donna che si racchiude nel vostro unico e solo corpo ad accettare le “gioie e i dolori” legati all’esser donne e madri.

Gli argomenti saranno scelti da Voi di volta in volta in base alle vostre esigenze, in piena libertà.
Vi aspetto!

Eugenia

Mum’s cafe – parlano le psicomotriciste

Il bambino, per lungo tempo, conosce solo ciò di cui fa esperienza.

Egli quindi impara chi è, che forma ha, quanto è grande il mondo, quanto è fredda l’acqua di un fiume, solo provando e muovendosi e toccando e osservando.

Il genitore ha semplicemente il ruolo di essere al suo fianco, sostenerlo in questa scoperta del mondo, fornirgli un luogo sicuro da cui allontanarsi e dove sapere sempre di poter tornare. Il genitore insomma deve saper osservare l’altro e sostenerlo nel suo essere al mondo, nelle sue preferenze, nella sua unicità.

Ma spesso il rapporto con l’altro – nostro figlio – non risulta così semplice e lineare. Ci sono nei confronti del figlio desideri e paure di cui magari neanche ci rendiamo conto. Ci si sente insicuri riguardo al suo sviluppo, a quanto spazio lasciargli, a quando è giusto porre dei limiti e come. Non si sa bene come reagire di fronte all’aggressività, e se quell’aggressività sia normale. Tanti dubbi insomma, tante incertezze, tante domande che non si sa a chi porre. Freud diceva di avere una buona e una cattiva notizia riguardo all’essere genitori. La cattiva notizia è che essere genitori è praticamente impossibile. La buona è che i migliori sono quelli che si rendono conto di questa impossibilità. Ovvero: quanto più vi sentite vulnerabili, tanto più vi porrete in ascolto di voi stessi e del prossimo.

Al mum’s cafe vi proponiamo un momento in cui far emergere con le altre mamme questa vulnerabilità, esporre i vostri dubbi, ascoltare le esperienze – e sarà incredibile scoprire come non si è soli nella difficoltà!

Noi come psicomotriciste vi sosterremo e vi daremo consigli laddove potremo, per creare un rapporto mamma-bambino ancora più armonico ed equilibrato.

Venite a trovarci nel nostro spazio, e ci troverete lì per voi!

A presto, Daniela, Denise, Rebecca.

Sostegno alla genitorialità: che mamma (o papà) “devo” essere?

Appena siamo nati, noi non sappiamo.
Non sappiamo di avere due mani, ad esempio. E neanche una faccia, se è per questo.
Non sappiamo di avere un nome, non sappiamo che esistono il giorno e la notte, non sappiamo di avere delle funzioni o un ruolo nel mondo.
Appena siamo nati, noi esistiamo. In stretto contatto con noi stessi, che siamo l’unica cosa che possiamo conoscere. La nostra presenza. Il nostro senso di gravità, di caldo e freddo, di mal di pancia e di fame.
Appena siamo nati, noi sentiamo.
E tutto quello a cui aspiriamo, è sentire qualcosa di bello. Sentire la sazietà, la serenità, il dolce dondolìo, il culetto pulito. E quindi, facciamo di tutto per aspirare a questo bello, a questo piacere. Piangiamo infuriati quando qualcosa va storto, e continuiamo a piangere fino a che l’universo che ci circonda – che noi stiamo contribuendo a creare, ovviamente – non ci riporta a uno stato di beatitudine. Allora la smettiamo di piangere, di tirare le braccia, di fare smorfie contrite, e ce ne stiamo beati, a dormire o a lanciare qualche sorrisino. L’universo sembra reagire molto bene a questi nostri sorrisini, e noi iniziamo a formarci l’idea di un mondo proprio bello, che soddisfa i nostri bisogni e che è contento proprio quando noi siamo contenti.
Poco a poco, questo magico rispondere a tutti i nostri bisogni muta impercettibilmente. Delle volte dobbiamo aspettare un po’ prima che arrivi la pappa. E capita che ci svegliamo e che nella stanza con noi non c’è nessuno. E magari mentre facciamo i nostri bellissimi sorrisi sdentati la mamma, la prima destinataria delle nostre smorfiette, sta sorridendo sì, ma intanto guarda una pentola canticchiando.
Se tutto il primo periodo di soddisfazione immediata l’abbiamo vissuto bene, se pensiamo che comunque il mondo sia un bel posto dove stare, tutti questi piccoli cambiamenti ci risulteranno naturali, avverranno insieme alla nostra crescita, e saranno per noi accettabili. Nei tempi in cui l’universo non si adatta più perfettamente a noi, possiamo permetterci di scoprirlo, di provare a modificarlo, di fargli capire come lo vorremmo. Possiamo afferrare un oggetto che suscita la nostra curiosità, e persino permetterci di lasciarlo andare, guardando il percorso che fa – perché non è da quell’oggetto che dipende la nostra felicità. Possiamo far capire all’altro di voler afferrare quell’oggetto, aspettando che ce lo porti. Possiamo stare svegli più a lungo e provare e riprovare i movimenti del corpo, certi che il mondo intorno a noi è sicuro.
La mamma, quell’essere meraviglioso che ha soddisfatto magicamente tutti i nostri bisogni da piccolissimi, è sempre lì – a riportarci gli oggetti lanciati, a rispondere alle nostre espressioni, a darci da mangiare, sebbene in modo diverso, poco a poco, attraverso una scoperta nuova e multisensoriale: il cibo della tavola.
Stiamo crescendo, e ci stiamo cominciando a rendere conto, seppur in maniera molto primitiva, che esiste un mondo al di fuori di noi, un mondo che non è stato creato da noi per soddisfare tutti i nostri desideri e per darci piacere, bensì un mondo reale, con dei tempi, delle regole, delle persone diverse da noi.
E questo è un passaggio meraviglioso e fondamentale: dal principio di piacere al principio di realtà.
Dal vederci come esseri unici al centro di un universo gaudente in tutto al percepirci come parte di un tutto che non possiamo controllare interamente.
Come potete intuire, è anche un passaggio lento, complicato e difficile: davvero non possiamo ottenere ciò che vogliamo? Davvero non posso controllare tutto? Davvero l’universo non mi appartiene? È una disillusione enorme, perché all’inizio ci avevamo creduto.
Ed è qui che la mamma e il papà sono importanti: mostrando di avere delle regole, facendo percepire dei limiti, mantenendo salde le loro posizioni, le loro conoscenze, le loro stesse persone, permettono al bambino che sta perdendo la sua onnipotenza di non sbandare troppo in questa perdita, di accoglierla e – più o meno – tollerarla. Permettono al figlio di percepire la realtà per quella che è, non un mondo spaventoso da cui ripararsi ma neanche un territorio da tenere sempre sotto controllo.
E come fare?
Rimanendo se stessi.
Dando il buon esempio – si mangia a tavola, non ci si interrompe quando si parla, ci si lava le mani prima di mangiare, a una certa ora si va a letto, eccetera: ogni famiglia ha le sue priorità.
E non perdendo la centratura quando il bambino si ribellerà, cercherà di cambiare strada, rifiuterà queste regole. Non è imponendole o ignorandole che i genitori daranno il giusto contegno al loro figlio: in un caso risulteranno incapaci di tollerare la diversità del figlio, mentre nell’altro trasmetteranno paura nei confronti del carattere del bambino. Mantenendo quindi sempre la consapevolezza di conoscere la giusta strada, e di mostrarla quanto meglio possibile al figlio.
Un esempio. Il piccolo si arrabbia, sbraita, butta tutto per terra perché non gli viene la costruzione come dice lui. Non neghiamogli la sua rabbia (“Adesso basta con queste scenate!”). Non cerchiamo di tirargliela via (“Vieni amore te lo faccio io”). Dategli dignità, stategli al fianco, e sostenetelo in questo momento difficile (“Accidenti questa costruzione non viene proprio! E che rabbia grr, grr, grr!”) cercando di far trovare a lui la strategia migliore (“Ma perché non verrà? Secondo te possiamo trovare un modo per risolvere il problema?”). In questo modo, non lo state allontanando dalla realtà o dai suoi sentimenti, non gli state nascondendo la difficoltà di dover sottostare alle leggi della fisica e delle proprie capacità, ma non gli state neanche impedendo di scontrarsi contro queste difficoltà.
Lo state accompagnando nel suo principio di realtà.
È un lavoro lungo e difficile, chi scrive è una mamma, quindi lo so per prima. E i momenti di sbandamento saranno innumerevoli. Ma cerchiamo sempre di essere in contatto con i nostri valori e i nostri sentimenti, per essere onesti con i nostri figli.