Sostegno alla genitorialità: che mamma (o papà) “devo” essere?

Appena siamo nati, noi non sappiamo.
Non sappiamo di avere due mani, ad esempio. E neanche una faccia, se è per questo.
Non sappiamo di avere un nome, non sappiamo che esistono il giorno e la notte, non sappiamo di avere delle funzioni o un ruolo nel mondo.
Appena siamo nati, noi esistiamo. In stretto contatto con noi stessi, che siamo l’unica cosa che possiamo conoscere. La nostra presenza. Il nostro senso di gravità, di caldo e freddo, di mal di pancia e di fame.
Appena siamo nati, noi sentiamo.
E tutto quello a cui aspiriamo, è sentire qualcosa di bello. Sentire la sazietà, la serenità, il dolce dondolìo, il culetto pulito. E quindi, facciamo di tutto per aspirare a questo bello, a questo piacere. Piangiamo infuriati quando qualcosa va storto, e continuiamo a piangere fino a che l’universo che ci circonda – che noi stiamo contribuendo a creare, ovviamente – non ci riporta a uno stato di beatitudine. Allora la smettiamo di piangere, di tirare le braccia, di fare smorfie contrite, e ce ne stiamo beati, a dormire o a lanciare qualche sorrisino. L’universo sembra reagire molto bene a questi nostri sorrisini, e noi iniziamo a formarci l’idea di un mondo proprio bello, che soddisfa i nostri bisogni e che è contento proprio quando noi siamo contenti.
Poco a poco, questo magico rispondere a tutti i nostri bisogni muta impercettibilmente. Delle volte dobbiamo aspettare un po’ prima che arrivi la pappa. E capita che ci svegliamo e che nella stanza con noi non c’è nessuno. E magari mentre facciamo i nostri bellissimi sorrisi sdentati la mamma, la prima destinataria delle nostre smorfiette, sta sorridendo sì, ma intanto guarda una pentola canticchiando.
Se tutto il primo periodo di soddisfazione immediata l’abbiamo vissuto bene, se pensiamo che comunque il mondo sia un bel posto dove stare, tutti questi piccoli cambiamenti ci risulteranno naturali, avverranno insieme alla nostra crescita, e saranno per noi accettabili. Nei tempi in cui l’universo non si adatta più perfettamente a noi, possiamo permetterci di scoprirlo, di provare a modificarlo, di fargli capire come lo vorremmo. Possiamo afferrare un oggetto che suscita la nostra curiosità, e persino permetterci di lasciarlo andare, guardando il percorso che fa – perché non è da quell’oggetto che dipende la nostra felicità. Possiamo far capire all’altro di voler afferrare quell’oggetto, aspettando che ce lo porti. Possiamo stare svegli più a lungo e provare e riprovare i movimenti del corpo, certi che il mondo intorno a noi è sicuro.
La mamma, quell’essere meraviglioso che ha soddisfatto magicamente tutti i nostri bisogni da piccolissimi, è sempre lì – a riportarci gli oggetti lanciati, a rispondere alle nostre espressioni, a darci da mangiare, sebbene in modo diverso, poco a poco, attraverso una scoperta nuova e multisensoriale: il cibo della tavola.
Stiamo crescendo, e ci stiamo cominciando a rendere conto, seppur in maniera molto primitiva, che esiste un mondo al di fuori di noi, un mondo che non è stato creato da noi per soddisfare tutti i nostri desideri e per darci piacere, bensì un mondo reale, con dei tempi, delle regole, delle persone diverse da noi.
E questo è un passaggio meraviglioso e fondamentale: dal principio di piacere al principio di realtà.
Dal vederci come esseri unici al centro di un universo gaudente in tutto al percepirci come parte di un tutto che non possiamo controllare interamente.
Come potete intuire, è anche un passaggio lento, complicato e difficile: davvero non possiamo ottenere ciò che vogliamo? Davvero non posso controllare tutto? Davvero l’universo non mi appartiene? È una disillusione enorme, perché all’inizio ci avevamo creduto.
Ed è qui che la mamma e il papà sono importanti: mostrando di avere delle regole, facendo percepire dei limiti, mantenendo salde le loro posizioni, le loro conoscenze, le loro stesse persone, permettono al bambino che sta perdendo la sua onnipotenza di non sbandare troppo in questa perdita, di accoglierla e – più o meno – tollerarla. Permettono al figlio di percepire la realtà per quella che è, non un mondo spaventoso da cui ripararsi ma neanche un territorio da tenere sempre sotto controllo.
E come fare?
Rimanendo se stessi.
Dando il buon esempio – si mangia a tavola, non ci si interrompe quando si parla, ci si lava le mani prima di mangiare, a una certa ora si va a letto, eccetera: ogni famiglia ha le sue priorità.
E non perdendo la centratura quando il bambino si ribellerà, cercherà di cambiare strada, rifiuterà queste regole. Non è imponendole o ignorandole che i genitori daranno il giusto contegno al loro figlio: in un caso risulteranno incapaci di tollerare la diversità del figlio, mentre nell’altro trasmetteranno paura nei confronti del carattere del bambino. Mantenendo quindi sempre la consapevolezza di conoscere la giusta strada, e di mostrarla quanto meglio possibile al figlio.
Un esempio. Il piccolo si arrabbia, sbraita, butta tutto per terra perché non gli viene la costruzione come dice lui. Non neghiamogli la sua rabbia (“Adesso basta con queste scenate!”). Non cerchiamo di tirargliela via (“Vieni amore te lo faccio io”). Dategli dignità, stategli al fianco, e sostenetelo in questo momento difficile (“Accidenti questa costruzione non viene proprio! E che rabbia grr, grr, grr!”) cercando di far trovare a lui la strategia migliore (“Ma perché non verrà? Secondo te possiamo trovare un modo per risolvere il problema?”). In questo modo, non lo state allontanando dalla realtà o dai suoi sentimenti, non gli state nascondendo la difficoltà di dover sottostare alle leggi della fisica e delle proprie capacità, ma non gli state neanche impedendo di scontrarsi contro queste difficoltà.
Lo state accompagnando nel suo principio di realtà.
È un lavoro lungo e difficile, chi scrive è una mamma, quindi lo so per prima. E i momenti di sbandamento saranno innumerevoli. Ma cerchiamo sempre di essere in contatto con i nostri valori e i nostri sentimenti, per essere onesti con i nostri figli.

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